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Il Comunismo consiliarista : processo politico-economico e prime misure rivoluzionarie

 

Prologo a une discussione

- Philippe BOURRINET

 

Il nostro proposito non è di scrivere qui la storia di un movimento che abbiamo già tentato di studiare nella nostra tesi di dottorato (1988), pubblicata tra l’altro proprio quest’anno in inglese. Né il nostro contributo ha per fine di dedicarci una volta di più a una archeologia della politica rivoluzionaria. Difatti, sarebbe del tutto vano dissotterrare le vestigia del passato senza affrontarne una problematica necessaria, laddove crediamo che la politica economica della rivoluzione emancipatrice giocherà senza alcun dubbio il ruolo decisivo.

In cosa, dunque, lo studio di questa corrente può rispondere alle numerose questioni poste in questa sorta di simposio centrato sull’emancipazione del lavoro? In particolare intorno al quesito posto nell’opera di Hazan & Kamo: «Come fare in modo che all’indomani dell’insurrezione che viene la situazione non si richiuda su stessa, che la libertà ritrovata s’estenda invece di regredire fatalmente?».

Malgrado «lo scetticismo ristagnante sull’idea di rivoluzione», come è stato sottolineato, una prospettiva di libertà esiste, purché sia riposta non sull’utopia ma sul movimento reale. E Il movimento dei consigli operai ci sembra far parte del movimento reale per l’emancipazione dell’umanità.

 

I. MOVIMENTO E FINALITA’ DEI CONSIGLI OPERAI

 

Il comunismo consiliarista designa una teoria e una prassi adottate e propagandate da diverse correnti marxiste rivoluzionarie, in rottura con la socialdemocrazia, poi con il comunismo ufficiale, tutto questo a partire dall’inizio del XX secolo.

Questa corrente trova la sua origine nel movimento degli scioperi di massa, nel modo in cui esso si è sviluppato dall’inizio del XX secolo e in particolare nella prima rivoluzione russa del 1905. Questa corrente ebbe come primi teorizzatori due donne (e ciò va sottolineato): Henriette Roland-Holst nei Paesi Bassi e Rosa Luxemburg in Germania (Sciopero di massa, partito e sindacati, 1906). E anche un astronomo socialista: Anton Pannekoek, autore di un’opera che a suo tempo fece scalpore: Le divergenze tattiche in seno al movimento operaio (1909).

Gli scioperi di massa, essendo di natura politica e non sindacale, non avevano alcunché in comune con lo sciopero generale, di natura sindacale, propagandato dagli anarco-sindacalisti o dai sindacalisti rivoluzionari. Inoltre questi scioperi ponevano, come affermò già il principale teorico del comunismo consiliarista Anton Pannekoek, la questione del potere, della «dittatura del proletariato» e dunque quella della distruzione dello Stato classista. E di ciò Lenin ben si ricorda nel suo libro Stato e Rivoluzione (1917), nel quale infatti cita abbondantemente Pannekoek.

Questo movimento di scioperi di massa culminò nel movimento dei consigli operai («soviet») che si crearono in Russia nel 1905 e nel 1917, in Germania durante la Rivoluzione dal 1918 al 1919, in Italia con l’esperienza del consigli di fabbrica di Torino (1919-1920), in Ungheria nel 1918-19, poi nuovamente nell’ottobre del 1956.

I consigli operai, secondo il comunismo consiliarista, non sono organi di rivendicazione sindacale: essi sono la forma politica di una democrazia diretta che raggruppa l’insieme dei proletari, operai e ceti non sfruttatori, quando si pone la questione del potere. La semplice trasformazione di questi consigli in organismi di gestione (organismi di produzione o di cogestione con lo Stato) – come in Russia dal 1918 – o la loro eliminazione politica in favore di una Assemblea costituente “nazionale” – in Germania nel gennaio del 1919 – segna la loro scomparsa.

Per il comunismo consiliarista, i consigli non possono essere che «proletari». Essi rappresentano le maggioranze, ma sono sovente quelle delle masse minoritarie agenti, quelle degli operai di fabbrica. Ci furono certo nel novembre del 1918 in Ungheria pure dei consigli di polizia e di studenti, di funzionari, di ingegneri, di casalinghe, etc. Ma questi sono una curiosità storica o, secondo un testimone del tempo, solo «l’onesto borghese rimasto senza consiglio, non sapendo più a quale santo votarsi».

Sono soprattutto questi consigli di fabbrica che devono dirigere la rivoluzione e prendere il potere in nome della società tutta intera.

Il comunismo consiliarista s’oppone a qualsiasi comunismo partitico, in particolare al «leninismo» (o alle sue derive da «capitalismi statali»), secondo il quale i consigli sono necessariamente sottomessi alla sola autorità del partito comunista che deve impossessarsi del potere statale e “costruire”, sostituendosi alla volontà delle masse, la società socialista, infine comunista nel decorso di un “periodo di transizione” senza fine.

Avendo per fine l’edificazione d’una società libera ed egualitaria, senza classi e senza stato sfruttatore, il comunismo consiliarista ha ben chiaro che il capitalismo di Stato perpetua il potere del capitalismo globale nel quadro d’uno Stato, che – sotto l’egida di una burocrazia o di una casta di funzionari o “specialisti” – resta il «capitalismo ideale» (Engels, Antidühring ) incaricato d’assicurare una accumulazione primitiva del capitale, in un quadro nazionale chiuso.

Questo “socialismo nazionale” non è dunque un progresso storico –sia che venga considerato come una forma di “Rivoluzione borghese” in una area geografica arretrata (Bordiga) o come uno “Stato operaio” “burocraticamente degenerato” (Trotsky) – in quanto cristallizza delle pretese “conquiste proletarie” ottenute dalla dittatura di un solo partito.

E’ questo rifiuto di qualsiasi quadro nazionale, divenuto vuoto di senso nel rapido movimento della globalizzazione, che caratterizza meglio il comunismo consiliarista. Quest’ultimo non riconosce nel fattore nazionale che un dato storico transitorio nell’emergere di una società globale. La presa del potere da parte dei consigli operai non ha alcun senso se posta sul terreno della nazione («socialismo in un solo paese») ed essa non può mettere radici se non ingloba simultaneamente almeno un gruppo di paesi, recidendo sin da subito le basi d’una ideologia di difesa di qualsiasi “patria socialista”.

Poiché i consigli operai sono costituiti su una base territoriale, essi non possono avere una esistenza puramente nazionale. L’istituzionalizzazione d’una federazione di Stati socialisti dei consigli è dunque da escludere. Il potere dei consigli operai in molteplici paesi, un continente, poi diversi, non può che fondarsi su una libera ed eguale associazione di consigli operai territoriali o regionali, basati sui distretti produttivi, facendo esplodere così la questione nazionale o nazionalista. La federazione delle “Comuni territoriali” conduce all’instaurazione di uno Stato-Comune mondiale. Nel suo opuscolo su Il divenire della nuova società (luglio 1920), Karl Schroeder, il capo del KAPD, affermava che questa comune mondiale non sarebbe stata una «federazione di repubbliche nazionali dei soviet» - tale e quale essa è proclamata da Lenin prima nel gennaio del 1918 e poi nella Costituzione della Repubblica socialista federativa sovietica di Russia del 10 luglio 1918. Questa Comune allargata al mondo intero assocerebbe i consigli operai di tutti i continenti creati su una base territoriali di imprese e mai federativa nazionale.

 

II. UN « NUOVO MOVIMENTO OPERAIO » : CAMBIO DI TATTICA, LA QUESTIONE DEL FINE IMMEDIATO

 

Rosa Luxemburg sottolineava nel dicembre del 1918, durante il Congresso di fondazione del KPD: «Ora, per noi non c’è né programma massimo né programma minimo; il socialismo è una sola e stessa cosa; è qui il minimo che noi dobbiamo realizzare oggi … la realizzazione del socialismo è il compito immediato la cui luce deve guidare tutte le misure, tutte le posizioni che noi adotteremo».

Il comunismo consiliarista tedesco e olandese (Räte-Kommunismus) sorto nel 1918-1919, considerava che la prima guerra mondiale avesse mostrato la vacuità del vecchio movimento operaio, organizzato nei sindacati e nei parlamenti. Questo vecchio movimento riposava sia su conquiste progressive e parziali che sulla ricerca di alleanze con le “frazioni progressiste” della classe dominante, in vista di una presa del potere graduale e legalitaria. Considerato che il capitalismo tradizionale era entrato in una fase di “crisi mortale” (Todeskrise), il comunismo consiliarista stimava di conseguenza che qualsiasi nuovo movimento operaio doveva, principalmente:

Rigettare la forma sindacale, ufficiale, considerata come espressione d’un riformismo utopico, la cui unica funzione è di inquadrare legalmente la forza-lavoro nel quadro d’una gestione tripartita del capitale tra Stato, padronato e “rappresentanti legali” del lavoro. Secondo il comunismo consiliari sta, le nuove forme d’organizzazione, in sostituzione dei vecchi sindacati, sarebbero le “Unioni operaie” nate dalla lotta rivoluzionaria, organismi di lotta politica ed economica, i comitati d’azione, dei disoccupati, nati spontaneamente dai bisogni della lotta di classe. I comunisti consiliaristi furono d’altronde militanti attivi di questi comitati tanto in Germania quanto negli Stati Uniti.

Rigettare il quadro parlamentare e l’azione di “tattica elettorale”. Il comunismo consiliari sta stima che in un periodo di preparazione rivoluzionaria, la partecipazione alle elezioni è una trappola mortale. Così come l’accettazione dell’Assemblea Costituente in Germania nel gennaio del 1919 fu un totale suicidio politico. Da tribuna rivoluzionaria, il parlamento è divenuto un circo elettorale, a immagine e somiglianza del Circo Busch di Berlino, dove i consigli si autoaffondano legalmente e consegnano tutto il potere all’Assemblea costituente. La sola validità delle elezioni è difatti emanata dalla base dei Consigli operai, in concomitanza con la nomina regolare (e la destituzione) dei suoi delegati.

Rifiutare il sostegno, anche solo tattico, ai movimenti di “liberazione nazionale”, poiché l’idea nazionale si oppone alla lotta per la conquista del potere da parte del solo proletariato (operai, impiegati, contadini poveri), sola classe portatrice di un progresso storico.

Combattere tutte le ideologie che deviano la classe lavoratrice dal fine supremo: la soppressione irreversibile del sistema capitalista qualunque sia la sua forma: liberale, terrorista, fascista o di capitalismo di Stato sotto qualsiasi forma staliniana essa sia. Il comunismo consiliarista, così come lo fanno Hazan e Kamo, considerava che l’antifascismo fosse un inganno tendente a rinvigorire il fascismo «dando l’impressione di sostenere l’ordine democratico esistente».

 

III. LE PRIME MISURE DELLA RIVOLUZIONE : DOMINIO SULLA POLITICA DA PARTE DELL’ECONOMIA E SOPPRESSIONE DELLO SFRUTTAMENTO

 

Questo rifiuto di tutta la vecchia tattica non aveva alcun senso fuori dal processo di fondazione d’una società nuova d’emancipazione, processo che doveva essere irreversibile per essere reale; ma esso ha bisogno anche di una società dove si rovescia la prospettiva: non la politica delle società tradizionali dominante l’economia, ma l’economia nelle mani dei produttori e dei consumatori che sottomette la politica, quella dello Stato, per meglio assicurarne l’estinzione in quanto strumento di classe.

Queste misure sono esposte in due testi fondamentali: Principi fondamentali della produzione e della distribuzione comunista (Berlino, 1930, Amsterdam, 1950) e i Consigli Operai (1941-1947) di Pannekoek.

Nel primo testo, scritto da un dirigente operaio del KAPD, Jan Appel, delegato al 3° congresso del Komintern, la questione della socializzazione o della comunistizzazione erano posti su un piano economico: «Ciò che gli operai devono condurre è il dominio sulla politica da parte dell’economia».

Per «economia» bisogna intendere l’associazione dei produttori liberi ed eguali sul loro luogo di lavoro, ignorando qualsiasi istanza statuale e di dominazione del partito. Il grande problema era quello della ripartizione egualitaria del consumo decisa non da una istanza statale centralizzata ma dalla base organizzata in consigli d’impresa. Si tratterebbe, dunque, di calcolare il tempo sociale medio di produzione di ciascuna merce per determinare in modo giusto una distribuzione uguale delle riserve sociali di consumo per ogni produttore-consumatore. Grazie a questa contabilità sociale, si metterebbe fine alla legge del valore: le merci sarebbero demonetizzate e circolerebbero sulla base del loro solo valore d’uso sociale. Questa contabilità sociale elaborata alla base permetterebbe di sfuggire al pericolo della formazione rapida di una burocrazia parassitaria.

Si tratterebbe nei fatti di creare un rapporto nuovo tra il produttore ed il suo prodotto, ciò che riprenderebbe una certa concezione libertaria teorizzata nel 1921 da Sébastien Faure (Il mio comunismo).

Questa visione appare semplicistica ai principali teorici del comunismo consiliarista Anton Pannekoek e Paul Mattick.

Per Pannekoek, nel suo libro I Consigli Operai, occorreva non perdere di vista che durante un certo lasso di tempo (non precisato) «occorrerà rilevare un’economia ridotta in rovina …» dalle crisi economiche così come dalle guerre. E proseguiva: «E’ possibilissimo che si continui a ripartire uniformemente le derrate alimentari come lo si fa sempre in tempo di guerra e di carestia … i nuovi principi morali del lavoro comune prenderanno forma in maniera graduale». Alla famosa parola d’ordine di Guy Debord: «Non lavorate mai!» Pannekoek oppone quella di una etica, di una giustizia eguale nella ripartizione dei beni di consumo. Egli riprende l’adagio popolare, nei fatti di San Paolo (Lettera ai Tessalonicesi): «chi non lavora non mangia». D’altra parte, il nuovo consumo non è riducibile ad un egualitarismo quantitativo di cooperatori autonomi (autogestiti): «una parte molto grande del lavoro deve essere consacrato alla proprietà comune, deve servire a perfezionare ed ad allargare l’apparato della produzione». Occorrerà anche «allocare una parte del tempo di lavoro globale alle attività non produttive ma socialmente necessarie: l’amministrazione generale, l’insegnamento, i servizi sanitari … »

Paul Mattick, negli anni ’50, puntualizzò il problema. Malgrado l’esperienza della grande crisi del 1929, alla quale si compara la crisi attuale, non si trattava più di costituire delle armate del lavoro, fosse esso sociale o d’interesse generale. Il calcolo della partecipazione di ciascuno al processo di produzione, diveniva infatti un falso problema, poiché «sarebbe stato talmente facile produrre un tale eccesso di beni di consumo che qualsiasi calcolo di partecipazione individuale diventava inutile».

La seconda critica era che la ripartizione comunista non poteva ricalcarsi sul vecchio mondo delle officine, dopo l’arrivo del fordismo.

In primo luogo, «la produttività del lavoro ha toccato un tale punto che i lavoratori effettivamente attivi nella produzione costituiscono una minoranza nell’insieme della classe operaia, mentre i lavoratori impegnati nella circolazione ed altri settori diventano la maggioranza».

In secondo luogo, il lavoro aveva acquisito una nuova qualità, universale, al punto che era impensabile di separare lavoro manuale e lavoro intellettuale. La combinazione di scienza e produzione fa che è impossibile scindere lavoro semplice e lavoro complesso. Paul Mattick notava che «in parte si possono considerare le Università come delle fabbriche, poiché le forze produttive fuoriuscite dal mondo della scienza tendono a soppiantare quelle legate al lavoro diretto».

In terzo luogo, la crisi mondiale uniforma le condizioni di una ripartizione comunista: «la pauperizzazione legata alla crisi colpisce tutti i lavoratori», i quali – anche se sono all’esterno della produzione diretta - «comunque la subiscono nello stesso modo della classe operaia».

Soprattutto Mattick insiste sul fatto che non si trattava né di rendere «egualitaria» una miseria sociale esacerbata dalla miseria d’un lavoro inumano. Riprendeva infatti la concezione di Marx per il quale la sola filosofia del lavoro doveva essere la sua abolizione: «Il “lavoro” è per natura l’attività asservita, inumana, asociale, determinata dalla proprietà privata e creatrice della stessa proprietà privata. Di conseguenza l’abolizione della proprietà privata diventa una realtà solo se la si concepisce come abolizione del ”lavoro” (Karl Marx, A proposito di Friedrich List, , Il sistema nazionale dell’economia politica, 1845)

Si noterà qui il virgolettato usato da Marx. Per lui il lavoro cede il posto ad una attività libera, dove «il dominio della libertà non inizia che qualora cessa il lavoro determinato dal bisogno e dall’utilità esterna».

Per Mattick, il solo buon principio era dunque non d’ordine quantitativo, ma qualitativo: un «principio dell’economia della classe operaia non è altro che la soppressione dello sfruttamento», tanto che il «lavoro» resta una tortura, labor, sottomesso al capitale privato e/o statale.

E’ per questo motivo che l’esigenza di una «contabilità» esatta del lavoro sociale medio per il consumo non potrebbe essere soddisfatta. Da una parte, in ragione delle «variazioni costanti del lavoro sociale medio», dall’altra perché si tratta costantemente di «adattare produzione e distribuzione ai bisogni della società». Questa società è una società globale, caratterizzata da abissali differenze da colmare prima di ottenere una equità nella sfera della distribuzione.

 

CONCLUSIONI : ATTUALITA’ DEL COMUNISMO CONSILIARISTA OGGI ?

 

Facendo dei consigli operai la forma ideata per il dominio sulla politica da parte dell’economia e dunque della dissoluzione dello Stato del capitale, il comunismo consiliarista fornisce qualche indicazione utile per delle soluzioni concrete agli interrogativi attuali: disoccupazione di massa e distruzione periodica della forza-lavoro.

Come può rinascere la speranza di una trasformazione della società che sia rapida ed irreversibile, passando topicamente dal locale al globale? E ciò malgrado la constatazione che il capitale rendendosi autonomo distrugge a tutta velocità non solo le condizione stesse della sua perpetuazione a causa della programmata distruzione delle risorse naturali, ma anche quelle delle forze produttive stesse (disoccupazione di massa).

Come lo constatano Hazan e Kamo, non possiamo pensare ad una emancipazione irreversibile del genere umano rassegnandosi a «constatare lo sprofondamento dell’edificio sociale presente. Ci occorre invece farlo accadere al più presto», prima che il Capitale offra all’umanità sia un orrore senza fine sia una fine rapida nell’orrore.

I consigli operai saranno la forma infine trovata d’organizzazione della società? Questa «insurrezione che verrà» (con tutte le sue virgolette intorno) predetta dai cosiddetti «anonymous» -termine molto contestabile (Jaime Semprun) – sarà «antipolitica»? Nel senso che non ci sarà più una «avanguardia», ma solamente degli «agenti di collegamento che operano per risvegliare e fare circolare i divenire rivoluzionari», secondo Hazan & Kamo portaparola di tutta una generazione scottata dai ricorrenti «costruttori di partito»?

O al contrario, come scriveva Pannekoek, si tratta di gruppi di lavoro e d’azione o «partiti» che hanno per missione di elaborare la «potenza spirituale» senza la quale qualsiasi forma d’organizzazione, come i consigli operai, sarebbe un guscio vuoto?

L’emancipazione umana da parte di organi riunenti delle «moltitudini» (Toni Negri e Michael Hardt) si pone certo hic et nunc, e non nelle brume lontane dell’utopia. In una globalizzazione ben riuscita, in cui le operazioni borsistiche avvengono in nanosecondi, siamo ben lontani dal tempo lungo braudéliano ma ben immersi nel tempo breve, dove l’emancipazione può sorgere come una questione concreta da risolvere ora («C’est maintenant … » Hic et nunc...). D’altra parte, sarebbe inesatto affermare che «la nozione di società di transizione è definitivamente caduca e reazionaria» (Bruno Astarian, 2010), come a dire che il processo di trasformazione irreversibile verso una emancipazione sociale avviene in un breve tempo.

 

Philippe Bourrinet,
20 février 2014

 

Materiali di riflessione e di pensiero critico (in francese)
(Par ordre de parution en français, ou de republication en anglais et allemand)

 

 Sébastien Faure, Mon Communisme : Le bonheur universel, Imprimerie La Fraternelle, Paris, 1921.

 Rosa Luxemburg, Discours au Congrès de fondation du KPD (Spartakusbund), Berlin, 31 déc. 1918, Écrits politiques 1917-1918, Maspéro, Paris, 1969.

 Anton Pannekoek, «Les divergences tactiques au sein du mouvement ouvrier» (1909), in S. Bricianer (éd.), Pannekoek et les conseils ouvriers, EDI, Paris, oct. 1969.

 Paul Mattick, Préface aux principes fondamentaux de la production et de la distribution communistes (1970), in Fondements de l’économie communiste, I.C.O. n° 101, 1er février 1971.

 Roland Bardy, 1919. La Commune de Budapest, La tête de Feuilles, Paris, 1973.

 Anton Pannekoek, Les Conseils ouvriers (1941-47), Bélibaste, Paris, 1974.

 Karl Marx, Critique de l’économie nationale. Sur le livre de Friedrich List « Le Système national de l’économie politique» (1845), Paris, EDI, 1975.

 Un monde sans argent : le communisme, Amis de 4 millions de jeunes travailleurs, vol. 1 à 3, 1976.

 Paul Mattick, «Y a-t-il un autre mouvement ouvrier ?» (1975), in Le marxisme hier, aujourd’hui et demain, Spartacus, Paris, 1983.

 Gruppe internationaler Kommunisten, Prinzipien kommunistischer Produktion und Verteilung, GIK-AAUD, Berlin, 1930. Traduction en anglais par le Movement for Workers’ Councils, Londres, 1990. (http://www.marxists.org/subject/left-wing/gik/1930/epilogue.htm)

 Jaime Semprun et René Riesel, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Éditions de l’Encyclopédie des Nuisances, 2008.

 Moishe Postone, Temps, travail et domination sociale (1993), Les mille et une nuits, Paris, 2009.

 Alain Badiou et Slavoj Žižek (dir.), L’Idée de communisme, Nouvelles Éditions Lignes, 2010.